In occidente, ci siamo battuti per la libertà, la democrazia e i diritti.
E siamo stupiti e arrabbiati per i soprusi nel mondo e per gli ultimi terribili episodi: la guerra in Ucraina, la rivolta delle donne in Iran, l’accanimento misogino dei talebani, e la strage degli Uiguri, solo per fare qualche esempio.
Noi stiamo vivendo la storia di due mondi diversi: il nostro, in minoranza numerica, ma sempre in maggioranza come peso politico, finanziario, economico e militare;
il loro, nel buio di un medioevo che stenta a migliorare secondo i nostri standard.
Il lungo viaggio fatto dall’occidente ci ha portato in una terra dove la democrazia e i diritti, pur con tutti i difetti che possiamo addebitare ai nostri stati e governi, sono stati anticipati da dure battaglie e tante lotte sociali, da forti passioni, ampia cultura, grandi intelligenze e continua innovazione.
Nell’altro mondo, la maggioranza vive sotto il giogo dell’oppressione, della prevaricazione, delle autocrazie, delle dittature, della religione ottusa e identitaria.
E questa maggioranza, ormai raggiunta dalla comunicazione delle nostre diversità, in parte tenta di lottare con esiti incerti, in parte convive con le dittature in silenzio come sudditi ignavi e nuovi servi della gleba.
Cittadini inconsapevoli che non hanno ancora combattuto le battaglie sociali che possono portarli alla libertà.
Questa è la loro colpa incolpevole.
L’Africa è tale, la maggior parte dell’Asia è tale, il Sudamerica in parte.
E abbiamo parlato di circa cinque sugli otto miliardi della popolazione mondiale.
Non è poco. Sono la maggioranza.
Vivono da sudditi, vivono da servi, ma possono scappare. Dalle torture, dalla dittatura, dalla fame.
Sono gli emigrati che divengono per noi immigrati.
Loro fanno parte di quel mondo che vuole fuggire dalla povertà, da un futuro di sicuri soprusi, da un clima che li ha dislocati, da una vita di stenti se non di schiavitù, da una vita senza più speranza.
Fuggono perché lottare è impossibile, come eroi non riconosciuti del nostro tempo.
Trovano una via di solitudine, rompono le radici e i vincoli familiari nella speranza di salvare quelle radici e quelle famiglie, si mettono in viaggio per incontrare un mondo migliore.
Il nostro. La democrazia, i diritti, una vita migliore.
E spesso trovano un muro. Sempre di indifferenza, spesso di solidi mattoni.
Respinti e maltrattati.
Ma queste persone coraggiose che hanno rotto con il passato, hanno già creato il futuro di altri paesi.
Gli Stati Uniti sono cresciuti e continuano a crescere su persone che fuggono e che loro accettano, compresi i nostri vecchi italiani che migravano. Così l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda…
In parte la Francia, in parte l’Inghilterra in quanto era dovuta l’accoglienza dei figli dei loro colonizzati.
Così ha fatto la Merkel con tre milioni tra siriani e iracheni nel 2015 e 2016, salvando al contempo il tasso di natalità che è schizzato a valori normali ed evitando una sicura estinzione.
Denatalità, non più figli, declino, forse estinzione di paesi rigogliosi e ricchi.
Di questo parlerà questo libro.
O meglio di come l’Europa perderà cento milioni di cittadini per ritrovarsi, a fine secolo, vecchia, meno potente e con molti paesi in via di estinzione.
L’Italia è tra questi.
Se va bene, perdiamo più di 20 milioni di abitanti, se va male 30 e diveniamo metà di quello che siamo ora, passando da ottava potenza del mondo a ventesima, o giù di lì.
Una catastrofe.
Alcune domande sono d’obbligo.
Possiamo cambiare la tendenza, facendo più figli?
E lo possiamo fare dando qualche servizio in più ai nostri cittadini che fanno i figli? Assegni unici, congedi parentali o asili sotto casa?
La risposta è tranciante: poco o nulla.
Siamo condannati per una scelta culturale irreversibile a fare sempre meno figli.
È la condanna della modernità, della uguaglianza di genere, dell’individualismo, della morte delle religioni, dell’innovazione tecnologica, delle famiglie single.
E allora?
Allora ci resta solo l’immigrazione.
Ci restano questi disperati eroi che vogliono vivere da noi e come noi.
E allora?
Allora invece di costruire muri o lucrare elettoralmente sulla paura dell’immigrato, dobbiamo costruire ponti.
Non possiamo- fortunatamente per capriccio della storia- fare più nulla per contrastare questo fenomeno epocale.
Possiamo solo deciderne le modalità.
I ponti possono essere di falso contrasto o timida apertura ai flussi spontanei da Est con gli afgani, i siriani, i pakistani e gli asiatici; oppure da Ovest da un Sudamerica che non va in Usa; oppure da un Sud con l’Africa, gigante poverissimo e governato in modo dittatoriale che giace ai nostri piedi.
Possiamo accettare l’immigrazione in modo disordinato, casuale e affrettato.
Oppure?
Oppure, possiamo costruire con intelligenza i ponti per governare ed accogliere immigrati di qualità, formati dalle nostre scuole ed università nei paesi che avessero sottoscritto accordi e selezionati in base alle esigenze della nostra economia.
Una bella intervista del direttore Molinari (in appendice) al presidente Mohamed Bazoum del Niger, un paese del Sahel più che povero, lo descrive bene, consapevole come uno che vive nel corridoio più pericoloso dell’emigrazione, che conosce perfettamente il tema e che cerca soluzioni reali e non estemporanee.
Quindi e infine?
Costretti ad accettare l’immigrazione, abbiamo due vie: riceverla contro la nostra volontà e sotto la spinta della necessità di forza lavoro mancante oppure pianificarla e programmarla, ottenendo commistione ed insegnando ed esportando contemporaneamente democrazia, diritti e libertà.
Qui e là.
Se invece facciamo finta che la denatalità non sia un problema, che è bello stare tra le nostre mura che crollano, che l’immigrazione sia un male da combattere e che la razza bianca sia superiore sperando di lucrare un voto in più, saremo di certo condannati al declino e forse all’estinzione.