Il nostro quadro è questo: la popolazione si dimezza e il reddito segue questo dimezzamento, il paese si troverà senza più forza lavoro con oltre il 30% di anziani, con una sanità e un’assistenza pensionistica ridotti all’osso, con pochi figli e pochissime mamme in età di parto.
Inoltre, i servizi sociali e gli interventi dello Stato per migliorare la natalità sono tra i più scarsi di Europa e inadeguati rispetto all’enormità del problema.
C’è da spaventarsi?
La risposta è sì.
Ma poi… si potrebbe contrastare la denatalità con i mezzi di oggi?
Prima di tutto, non bisogna barare sui numeri.
L’ISTAT, nel pubblicare il suo report 2022, si è concessa una libertà che forse si rivelerà anche vera, ma che non è in nessun piano di governo, specie di quello attualmente in carica: ha immaginato l’arrivo di circa 6 milioni di nuovi immigrati dal 2050 in poi, un ingresso che potrebbe far passare il nostro indice di fertilità dall’1,3 del 2021 all’1,5 del 2070.
Questa proiezione vedrebbe un calo di “soli” 12 milioni, con una popolazione a 47 milioni nel 2070, contro i 40 dell’ipotesi più cupa e che ci vedrebbe poi arrivare a fine secolo con 37 milioni di persone come prevede invece il report appena uscito di UNDesa, Nazioni Unite.
L’ISTAT ha scelto una previsione leggermente meno dura, credo, per dare speranza a al paese e a governi che tra guerra, pandemia e crisi energetica non vogliono proprio sentir parlare della catastrofe demografica in arrivo.
Allo stesso modo, però, Istat non ha sottaciuto che “nel 2070 avremo una nettissima diminuzione delle famiglie con figli e un aumento delle donne che resteranno senza figli e delle famiglie senza figli.”
Occorre denunciare il problema, non sottacere!
Se ci fosse più trasparenza nei numeri, anche i governi che si succederanno potrebbero cominciare a capire che questa è una vera catastrofe, e forse anche a proporre qualche piano più serio.
E questa è la prima delle possibili soluzioni: avere coscienza del problema.
La denatalità in Italia non è una questione spuntata ieri, anzi, era leggibile fin dagli anni ‘70 del secolo scorso. Eppure, sono trascorsi cinquant’anni senza che si sia denunciato il problema, mentre il nostro paese scivolava verso un tasso di natalità dell’1,3 figli a coppia, senza che nessuno ne avesse coscienza.
Negli ultimi anni qualcosa si è mosso: il Family Act della Ministra Bonetti dell’aprile 2022 è un primo, debole, segnale per tentare di bloccare la valanga.
Il recente governo ha dato un segnale sull’incremento dell’assegno unico universale, ancora poco efficace.
Perciò, il primo facile strumento per affrontare la denatalità è la denuncia dell’esistenza stessa del fenomeno e del fatto che nessuno lo stia affrontando.
Trasparenza, comunicazione, pubblicità, comprensione dei dati oggi sono sui report ufficiali, ma dovrebbero avere una comunicazione più aperta, ampia, martellante.
Se ne dovrebbe discutere perché il fenomeno è sociale, facendolo diventare un tema da piano di governo, o di opposizione, chiedendo strumenti e piani risolutivi.
La battaglia non è né di destra, né di sinistra, è un problema di tutti che va risolto per evitare una slavina dalle conseguenze terrificanti.
Servizi inadeguati rispetto al problema
Questo è il secondo punto: denunciare l’inadeguatezza dei nostri servizi che rispondono più a un periodo anni Sessanta del ‘900 che a quello che stiamo attraversando.
Oggi la maggiore uguaglianza nel rapporto uomo-donna ha alla fine cambiato il paradigma della nostra società.
Le donne prendono coscienza del loro ruolo nel mondo del lavoro, delle possibilità che si aprono in relazione alle proprie ambizioni e ai propri obiettivi, in una parola, vogliono realizzarsi.
Per far ciò, il matrimonio e la famiglia si sono allontanati nel tempo.
Il figlio viene alla luce a 34 anni circa, quando non c’è più tempo per un secondo figlio.
Aggiungiamo che anche i problemi strutturali ed economici della nostra società impediscono alle giovani coppie di formare una famiglia.
Per le donne, in primis, perché seppur nominalmente uguali ai propri compagni e mariti, guadagnano comunque meno.
Si va a scuola e all’università fino a tarda età, allungando quindi il momento del matrimonio e soprattutto quello della indipendenza economica che permette di avere un figlio.
E gli stipendi poi non si alzano da dieci anni a questa parte e per i giovani tante sono le esperienze precarie e mal pagate che inibiscono la formazione del nucleo familiare.
Continuando…comprare una casa diventa sovente un miraggio, i soldi, comunque vada, sono sempre pochi e un bambino costa e costa tanto.
Gli asili nido scarseggiano nelle aziende. Gli asili comunali coprono come sappiamo il 30% del totale e i nonni, peraltro più presenti di prima per via dell’aumento della longevità, non sempre sono disponibili.
Insomma, in una tale situazione e in una parola il quadro che ne esce spinge una giovane donna a chiedersi: “ma chi me lo fa fare?”
Il ratto delle Sabine: esempio antico di una modernità che avanza
Narra la leggenda che Romolo, dopo aver fondato Roma, si trovò nella situazione di doverla popolare, e si rivolse quindi alle popolazioni vicine alla ricerca di donne fertili con cui procreare e dare vita alla città. Al rifiuto dei vicini, con un inganno, li attirò in città e rapì le povere malcapitate.
Questa provocazione dalla storia antica introduce un concetto che, nei secoli, non è mutato: l’immigrazione per tutta l’Europa è stata finora una delle migliori modalità per risolvere il problema della denatalità.
Pensiamo alla storia moderna, recentissima, di alcuni paesi europei: in Germania, l’allora Cancelliera Angela Merkel accolse milioni di siriani nel 2015 e 2016 che contribuirono a dare una sferzata di vita alla popolazione tedesca.
La Francia ha tratto il medesimo beneficio dai rapporti con le sue ex-colonie africane e i Paesi Scandinavi hanno seguito la tendenza positiva, ma non sempre con i risultati sperati.
Andando oltre oceano, pensiamo a chi sull’immigrazione è nato, come gli Stati Uniti, l’Australia, o si è sviluppato, come il Regno Unito ante-Brexit.
Anche l’Italia, nonostante le mille polemiche, ha accolto e accoglie oltre cinque milioni di immigrati regolari, forse anche un paio di irregolari, che ci consentono di ritardare la totale débâcle di una fertilità in caduta libera. In ogni caso, l’immigrazione è la soluzione più sicura e veloce delle tre descritte, sebbene porti con sé problemi che non sono immediatamente eludibili.
Purtroppo, il nostro non è un paese dal retroterra culturale accogliente come gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia. La nostra colonizzazione è stata tarda, precaria, malfatta, un’esperienza breve e disastrosa interrotta poco dopo gli inizi.
Più di recente, abbiamo recepito la prima fase dell’immigrazione europea negli anni ‘90, quando la comunità albanese iniziò ad attraversare l’Adriatico per arrivare sulle nostre coste; poi sono arrivati i rumeni, i magrebini, i cinesi, i sudamericani, e infine gli africani contro i quali si scagliano le peggiori retoriche razziste e che, in realtà, costituiscono solo il 20% degli immigrati regolarmente residenti in Italia, una minoranza.
I famosi sbarchi osteggiati dai Salvini di turno per raccogliere i voti della paura sono solo una piccola percentuale dell’immigrazione reale che giunge via aereo, treno o dalle frontiere del nord e dell’est. Certo, lo sbarco è televisivo, scenografico e consente di costruire una retorica che nasconde l’incapacità totale dei partiti e dei governi che, negli anni, non hanno saputo elaborare una politica seria di immigrazione o accordi con gli stati di partenza, cavalcando l’ondata di indignazione, lanciando proclami e editti a vuoto.
Tutto ciò una decina d’anni fa era utile a raccogliere voti, oggi neppure visto che l’opinione pubblica sa riconoscere le nuove, vere emergenze: la guerra, la crisi energetica, le bollette che impennano.
Sull’immigrazione tutto resta più immobile nel giudizio e nel risentimento.
Eppure, l’immigrazione è la chiave di volta del problema della denatalità.
È tra le soluzioni è quella più certa e più sicura.
Ma il dossier va ribaltato.
La percezione sociale considera l’immigrazione come un’oppressione che mangia il nostro lavoro, mentre invece si tratta di una risorsa che permetterà al paese di mantenere il suo status di ottava potenza del mondo.
Quindi bisognerebbe cambiare l’approccio complessivo: guardare con accettazione il fenomeno migratorio, accettare e tentare di ricevere anche l’immigrazione, cercando anche quella di qualità.
È fattibile?
Sinceramente, vedendo la percezione razzista che percorre il nostro paese, mi sembra ancora difficile, specie nei confronti dell’Africa. Ma l’esperienza dice che quando stai annegando ci si attacca al primo salvagente e l’immigrazione può essere la nostra unica ancora di salvezza.
Quando sarà il momento gli italiani – crediamo – non ci penseranno due volte.
Come si sono comportati i paesi europei?
Sarebbe impossibile condensare un’analisi di tutti i paesi europei in un capitolo, ma guardiamo ad alcuni esempi che caratterizzano i diversi approcci e l’integrazione delle tre componenti – comunicazione del problema, nuovi servizi alla famiglia e migrazioni regolate – di cui ho appena tratteggiato i contorni.
Parliamo di Germania, Francia e Svezia.
La Germania ha attuato una politica molto attenta al contrasto alla denatalità: quando ha capito che l’indice di fertilità si stava abbassando all’inizio dell’ultimo decennio, arrivando a toccare il livello di 1,3 figli per donna, ha iniziato ad attuare politiche per il miglioramento dei servizi familiari indirizzate alla conciliazione e al sostegno economico.
La copertura degli asili nido è stata portata verso il target europeo del 33%, con un forte miglioramento della qualità e dell’accessibilità anche attraverso la riduzione delle rette, misure che hanno consentito di arrivare ad una copertura quasi del 50%.
È stato potenziato il sistema dei congedi parentali, con particolare attenzione a favorire la presenza combinata dei genitori ed il coinvolgimento del padre nei primi mesi e anni di vita del bambino.
E poi in Germania ogni bambino ha diritto a un assegno universale di 200 euro al mese, dalla nascita fino ai 18 anni di età che diventano 24 se si continuano gli studi all’università, il tutto a prescindere dal reddito, anzi, con maggiori donazioni per le famiglie in difficoltà. Stiamo parlando di una fetta tripla in percentuale sul Pil di quella che mette l’Italia sul piatto di figli e famiglia.
La vera svolta, però, è stata nella politica dell’immigrazione.
In numeri hanno svoltato nel periodo 2010-15 con oltre due milioni di immigrati e nel periodo 2015-2020 con 2.719.000 milioni di immigrati, prevalentemente siriani, iracheni e iraniani. Tutti noi ricordiamo Angela Merkel che nel 2016 accolse in una notte un milione di siriani.
L’Europa intera la applaudì, tirando il fiato.
Ma lei con quella mossa fece smuovere l’indice di fertilità dall’ 1,3 all’1,7 di oggi, tasso che permette alla Germania di vedere più roseo il futuro dei suoi 80 milioni di abitanti. Certo, qualcuno ne perderà, ma andando verso la fine del secolo non saranno tali da compromettere il futuro del paese…
Al quadro va aggiunta una politica lungimirante sull’immigrazione fin dal 2001, al grido di “Germany needs immigrants”, con varie leggi che favorivano l’immigrazione e che permisero a turchi, polacchi, rumeni, iracheni e iraniani e poi siriani di poter arrivare in suolo tedesco.
Il principio di ius sanguinis fu subito collegato allo ius soli che permette ai bambini nati in Germania di avere la cittadinanza tedesca immediatamente, con possibilità di confermarla entro i 23 anni, poiché il paese non consente la doppia cittadinanza.
Tra gli 11 milioni di immigrati richiedenti asilo dal 1985, il 32% è stato accettato dalla Germania: il record europeo.
Il combinato disposto di un atteggiamento positivo verso l’immigrazione come necessità e non come rifiuto, una seria serie di servizi alla famiglia nel caso di figli e aiuti economici mirati e ben calcolati, hanno creato le condizioni per un salto di qualità. Non siamo ancora al 100%, (la Germania comunque perderà il 17% della popolazione) ma certo le cifre raggiunte sono sufficienti a non disperarsi.
La Francia è un paese che nel tempo ha sempre mantenuto una forte attenzione alle politiche di sostegno alla natalità e ai servizi per l’infanzia.
Il reddito complessivo della tassazione è basato sul quoziente familiare, in modo da tenere esplicitamente conto del numero dei figli, visto che il sostegno cresce all’aumentare dei figli in un nucleo che si è rivelato vincente sul fronte della natalità. Inoltre, la copertura degli asili nido arriva ormai al 50% dei bambini sotto i tre anni.
Culturalmente le donne francesi hanno tassi più bassi di lavoro femminile rispetto alla Germania e una maggiore attenzione alla famiglia tradizionale.
A questo poi si aggiunge che la Francia ha sempre avuto un atteggiamento aperto all’immigrazione, specie verso la parte africana francofona, composta da circa 500 milioni di persone. Dall’800 la Francia ha costituito un impero coloniale, e dopo l’Inghilterra si è aggiudicata il titolo di seconda potenza del mondo per tutto il XIX secolo e per la prima parte del ‘900.
Quasi tutte le terre africane dell’ovest sono state occupate dalla Francia: Algeria e Tunisia nel nord, la zona del Sahel alle porte del Sahara, buona parte della costa africana atlantica, e nella zona centrale il Camerun, la Repubblica Centrafricana fino al Congo e al Gabon. E poi nel resto del mondo la Polinesia, l’Indocina, i territori nei Caraibi, tutte terre che hanno esportato e ricevuto emigrazione ricca e povera.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale prima e dall’inizio del disfacimento dell’impero francese poi, l’interscambio di popoli ha prodotto una società multiculturale abbastanza ampia che però si è fatta problematica con l’avvento dell’islamismo radicale.
Le rivolte nelle famose banlieues parigine e in altre grandi città europee sono l’esempio più eclatante del rigetto di una multiculturalità che comunque è ormai un pilastro consolidato nel paese.
Queste componenti di rispetto dell’immigrazione, servizi sociali ed atteggiamento culturale più propenso ad avere figli fanno della Francia il paese che perderà meno popolazione nei prossimi 80 anni, solo 4 milioni su 64.
La Svezia è un caso di scuola e ha una situazione simile agli altri paesi scandinavi.
La lunga stagione socialdemocratica di tasse sostenute e di servizi di qualità alla cittadinanza le ha permesso di mantenere il livello più alto di natalità, tanto che chiuderà il secolo in progresso numerico come la Danimarca.
Uomini e donne sullo stesso piano sul lavoro e in famiglia sono la cifra iniziale di successo della natalità.
A ciò, aggiungiamo servizi alla famiglia ad altissimi livelli: asili nido che raggiungono quasi il 60% dei bambini al di sotto dei 3 anni, congedi parentali dalla durata coerente sia per la madre che per il padre, sostegno economico dello Stato.
Anche nel privato però, l’atteggiamento delle aziende è child-friendly: poche sono le società che non si sono attrezzate ad accogliere i bambini delle neomamme e ad approvare il part time come diritto della donna post gravidanza e anche dopo.
A questo quadro perfetto per poter aver figli costituito da cultura, uguaglianza, sostegno statale e servizi ai bambini, in quest’ultimo decennio si è aggiunta anche un’apertura all’immigrazione che ha visto accogliere quasi un milione di immigrati su 10 milioni di abitanti, un buon 10%, E quasi un altro milione di richiedenti asilo negli ultimi quarant’anni.
A fronte di quest’analisi, proviamo a tirare le somme della situazione europea: il nord presenta il lato roseo della natalità, con i Paesi Scandinavi, Regno Unito ed Irlanda che crescono demograficamente perché hanno un sistema articolato di attenzione alla natalità, in cui il ruolo dell’immigrazione ha contato tantissimo.
I paesi dell’ex universo sovietico subiranno un vero tracollo demografico, con punte di decrescita del 57% per la Bulgaria, del 48% per la Croazia, a causa di evidenti mancanze di politiche sociali adeguate e ristrettezze di budget. In questi paesi, poi, anche il fattore migratorio è insignificante, sia perché paesi di passaggio sia per la scarsa attrattiva di opportunità professionali.
Il sud invece rappresenta il vero dramma demografico europeo, con perdite dal 30% al 40% tra Spagna, Portogallo, Grecia e Italia. Perdita di popolazione e anche di centralità, figlia di politiche sociali vecchie e poco articolate, di disuguaglianze tra i sessi troppo marcante, di un atteggiamento disattento e provinciale nel rigetto dell’immigrazione e infine di una scarsa considerazione del problema della denatalità.
E, come abbiamo detto, l’Italia è quella messa peggio.
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